In questa intervista, Marco Valerio Roscioni ci accompagna in un’indagine sul rapporto tra intelligenza artificiale e umanità. Un dialogo che attraversa l’innovazione, i sistemi predittivi e la generatività adattiva, per riflettere su come la tecnologia possa diventare strumento di trasformazione e co-evoluzione. Un’occasione per esplorare il futuro dell’AI e il suo impatto sulla società.
Può fare un breve excursus sulle sue esperienze professionali e formative?
Il mio percorso è iniziato dalla creatività e dalla formazione umanistica, per poi incrociare tecnologia e innovazione. Ho studiato VFX, Game Design e Realtà Virtuale, e parallelamente ho portato avanti studi in relazioni internazionali.
Dal 2016 ho iniziato a collaborare con startup e aziende attive nei settori più avanzati: AI, AR, VR e sistemi interattivi intelligenti. Dal 2018, ho iniziato a integrare modelli AI e strumenti del mondo gaming nel business, rendendoli strumenti pratici di lettura, previsione e gestione di realtà complesse. Da quel momento in poi, il mio lavoro si è concentrato sulla produzione di sistemi autogenerativi, predittivi e adattivi, progettati non solo per funzionare, ma per imparare, modellare, guidare.
Ho partecipato a progetti con RAI, Sampdoria, Labozeta, Lisciani e istituzioni locali, sviluppando strumenti digitali ad alto impatto.
Oggi il mio ruolo è quello di ricercatore, designer e sviluppatore di sistemi complessi, specializzati in automazione intelligente, predizione e generatività adattiva. Lavoro affianco alle aziende e ai partner per liberare il massimo potenziale della tecnologia, ma in modo consapevole, sostenibile e umano-centrico.
La mia missione, in fondo, è sempre stata la stessa: non usare la tecnologia per sostituire l’uomo, ma per liberarne tempo, intelligenza e possibilità, rispondendo ai suoi bisogni reali e rendendo praticabili scelte etiche altrimenti impossibili, attraverso strumenti nuovi, agili e comprensibili.
2. Cosa significa per lei “innovazione” e come è cambiata nel tempo?
Innovazione non è sinonimo di tecnologia. La tecnologia è uno strumento, un mezzo che serve a rendere applicabile e concreta l’innovazione, ma non la esaurisce. Innovare significa generare una tensione evolutiva, una spinta creativa che nasce da una capacità tutta umana di immaginare, trasformare e manifestare il nuovo. L’innovazione non è né solo strumentale, né esclusivamente intrinseca: è una forma di adattamento e risignificazione.
Per essere applicata, l’innovazione ha bisogno di una tecnologia — che può essere meccanica, sociale, culturale, digitale — ma non può essere ridotta alla sola funzione tecnica. Se lo facciamo, rischiamo di cadere in un livello di astrazione che ci impedisce di cogliere la vera natura dell’atto innovativo: il suo legame con l’umano, con la sua creatività, con la sua capacità di progettare oltre l’esistente.
Oggi però assistiamo a un fenomeno paradossale: l’innovazione, da orizzonte di senso e progresso collettivo, si è trasformata in un bisogno sistemico, in una condizione strutturale necessaria al mantenimento dell’ordine attuale. Innovazione e tecnologia non rispondono più ai bisogni dell’uomo, ma diventano loro stesse necessarie al funzionamento della società. La tecnologia non produce più solo strumenti per evolvere, ma barriere di accesso, stratificazioni, dinamiche di potere e distribuzione delle risorse. Serve sempre più tecnologia per fare innovazione, e questo ciclo — se non riletto criticamente — rischia di convertire l’innovazione in un processo verticale, selettivo, e non più universale.
L’innovazione, che una volta nasceva come strumento per soddisfare bisogni umani, oggi rischia di essere strumento di mantenimento delle gerarchie sociali.
La vera innovazione oggi, quindi, sarebbe tornare a una tecnologia che renda possibile l’etica, che sia capace di ricollocare la propria funzione nel quadro evolutivo dell’umanità. Solo in questo contesto possiamo parlare davvero di co-evoluzione uomo-macchina, dove l’innovazione torna a essere creazione di senso, identità e nuove forme di realtà condivisa, e non semplice reazione alla pressione del sistema.
L’innovazione, in fondo, non è mai stata solo un fatto tecnico. È sempre stata una definizione implicita dell’essere umano, il suo modo di rispondere, di immaginare e di evolvere.
Su quali progetti in ambito tecnologico e AI sta lavorando?
Lavoro da anni su progetti che integrano intelligenza artificiale in diversi ambiti, dalla formazione all’inclusione, dal turismo intelligente al commercio interattivo. Ho sviluppato sistemi immersivi, ambienti virtuali con analisi comportamentale, assistenti vocali intelligenti, piattaforme predittive e interfacce adattive, capaci di rispondere in tempo reale ai dati e alle esigenze degli utenti.
Mi occupo in particolare della progettazione dei modelli e degli algoritmi che stanno alla base di questi sistemi. Lavoro sull’integrazione tra ricerca e sviluppo, traducendo dati e osservazioni di campo in modelli auto apprendenti e autogenerativi, capaci di ottimizzarsi nel tempo.
Questo include anche lo sviluppo di sistemi per la trasmissione, codifica e sicurezza dei dati, in particolare in contesti ad alto impatto strategico o ad alta variabilità comportamentale.
Per me la tecnologia non è mai fine a sé stessa. Il mio lavoro mira a creare strumenti che siano realmente utili, trasformativi e comprensibili per chi li utilizza, sempre orientati all’ottimizzazione delle risorse umane, ambientali e digitali.
Oggi non si tratta più di produrre un “prodotto” finito, ma di sviluppare sistemi generativi che si adattino al contesto, all’utente e al tempo, e che siano in grado di crescere e apprendere in modo etico e sostenibile.
Cosa pensa a riguardo delle influencer generate dall’AI?
Le influencer AI rappresentano uno dei casi più emblematici del nostro tempo: mostrano come la fiducia sia ormai una costruzione algoritmica. Queste figure non derivano da relazioni esperienziali autentiche, ma da modelli predittivi e codici generativi che riproducono segnali noti, emozioni simulate e comportamenti sociali ottimizzati.
Il fatto che siano artificiali non è ciò che mi preoccupa. La domanda vera è: su cosa fondiamo la nostra fiducia? Su una narrazione coerente? Sulla ripetizione di segnali familiari? Sull’estetica, sull’engagement, su metriche quantitative? Il problema non è più distinguere tra reale e virtuale, ma avere coscienza che ciò che consideriamo “credibile” è costruito — e in quanto tale, è anche manipolabile.
Ecco perché il nodo centrale non è avere un’opinione “pro o contro”, ma essere in grado di generare un’opinione consapevole, una coscienza collettiva dotata di alfabetizzazione digitale, capace di comprendere i meccanismi sottostanti e di metabolizzarli in un pensiero critico.
Che tipo di sistema AI sta sviluppando con Business Intelligence Group?
Stiamo sviluppando un sistema di intelligenza artificiale avanzato, progettato per analizzare dinamicamente dati, informazioni e caratteristiche specifiche del brand del cliente. Attraverso l’uso di algoritmi predittivi complessi e un sistema di valori gravitazionali costruiti su misura, l’AI è in grado di modellare scenari futuri, individuare il potenziale commerciale di prodotti, promozioni e aree geografiche e fornire indicazioni operative a imprenditori e decision maker.
La piattaforma si connette in tempo reale con dataset ufficiali (come quelli ISTAT, Google Trends, enti di settore) e li incrocia con dati osservabili online, interviste, metriche di performance e informazioni qualitative provenienti dal contesto digitale. L’obiettivo è offrire uno strumento strategico e immediato, semplice da usare ma estremamente potente sul piano analitico, in grado di suggerire le scelte migliori da compiere in ambito di geomarketing e sviluppo di prodotto.
Il cuore del sistema è un modello predittivo ispirato, tra gli altri, al modello di Huff, ma potenziato da valori dinamici legati alla forza interna del brand, alla sua attrattività, e al comportamento dei consumatori nei diversi contesti territoriali.
L’intelligenza artificiale funziona anche come assistente conversazionale evoluto, capace non solo di rispondere, ma di guidare l’utente nell’utilizzo del software attraverso un’interazione vocale naturale, intelligente e contestuale. Non si tratta di un semplice chatbot, ma di una mente sintetica specializzata, progettata per apprendere e migliorare costantemente, adattandosi agli obiettivi e ai linguaggi specifici dell’utente.
Quali sono le sfide o i limiti ancora da superare nell’uso dell’AI?
Uno dei primi limiti, spesso trascurato, è l’infrastruttura materiale: l’hardware, il “ferro”, che sostiene l’intero potenziale computazionale. Ma qui il limite non va letto solo come ostacolo, bensì come confine dinamico, come perimetro che definisce ciò che l’AI può considerare “suo”. Tutto ciò che è contenuto entro quel confine è modellabile, interpretabile, dominabile dall’intelligenza artificiale.
Il punto, allora, non è solo cosa accade ai margini del regno dell’AI, ma cosa succede al suo interno, dove i dati diventano codice sociale, valore economico e struttura di senso.
Sul piano pratico, una delle sfide più urgenti è l’illusione di conoscenza: l’AI lavora su dati tracciabili, ma questi non sempre riflettono bisogni autentici o esperienze complesse. C’è poi l’asimmetria cognitiva: molti utenti si interfacciano con sistemi che non comprendono, generando una relazione implicita di dipendenza, persino di potere.
Serve una nuova alfabetizzazione digitale, ma non solo tecnica — critica, culturale, valoriale. Perché il vero problema non è l’AI che evolve, ma una società che evolve senza comprenderla, sempre più tecnocreativa ma sempre meno consapevole dell’impatto simbolico, sociale e persino identitario di ciò che costruisce.
Dove l’uso dell’AI si ferma e interviene l’uomo?
L’AI si ferma dove non c’è più dato, né interazione, dove non esistono schemi ricorrenti, ma decisioni da prendere. Ma questo è un confine mobile, sempre più difficile da tracciare. L’AI — per ora — ha bisogno di autori, di contesto, di scelte umane. Ma se la società evolve verso una massa diffusa di micro-editori e macchine osservatrici, allora i dati potrebbero essere sufficienti anche per la creazione di sistemi pienamente autogenerativi.
Oggi, però, l’uomo ha ancora un compito evolutivo: è colui che ridefinisce il contesto, che decide cosa è importante e cosa non lo è, che si assume responsabilità morali, non solo funzionali.
Non esiste un punto netto in cui “finisce l’AI e inizia l’uomo”. È un continuum, un’estensione del sé, una creatura dell’umano, anche se, paradossalmente, dotata di potenziali evolutivi autonomi.
La macchina può ottimizzare, prevedere, persino creare. Ma non sa perché lo fa, né per chi. L’uomo resta, oggi più che mai, il garante di se stesso.
Come vengono gestiti i problemi etici e di privacy nell’ambito dell’intelligenza artificiale?
La gestione etica non può avvenire “a valle”, come correzione. Va progettata a monte, nel design stesso del sistema. Significa pensare a un’AI che sia trasparente, verificabile, interpretabile.
Etica, in questo senso, non è un layer aggiuntivo, ma la struttura della relazione tra uomo e macchina.
Serve:
- trasparenza nell’uso dei dati
- controllo reale da parte dell’utente
- diritto all’interpretazione umana
- limiti chiari all’autonomia decisionale del sistema
E ancora una volta torna il nodo cruciale: la consapevolezza collettiva. Non basta costruire AI etiche, bisogna avere persone capaci di leggerle, interpretarle e governarle. Serve una rete diffusa di risorse formative e informative, perché oggi l’analfabetismo non è tecnico, ma morale e critico, e si riflette in ogni interazione con la macchina.
Come dobbiamo immaginarci l’AI tra 5 anni?
Non la vedo come un’entità autonoma, ma come un partner evolutivo.
L’AI smetterà di essere un semplice “assistente” e diventerà parte integrante della nostra identità aumentata: ci aiuterà a pensare, decidere, comunicare, progettare. Sarà una nuova stratificazione del sé, un’estensione cognitiva, emotiva e operativa.
Vivremo in una condizione co-evolutiva, dove uomo e macchina si trasformeranno a vicenda. Non ci sarà più un confine chiaro tra dentro e fuori, naturale e artificiale.
Diventeremo interfacce mobili, capaci di percepire, agire, pensare, generare.
Ovviamente questo apre scenari enormi, impossibili da riassumere qui. Alcuni promettenti, altri da sorvegliare con attenzione. Ma una cosa è certa: non si torna indietro, e la vera differenza non la farà la tecnologia, ma il modo in cui sapremo abitarla.